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Lavoro

Corte di Cassazione : il carico di lavoro eccessivo non equivale automaticamente a mobbing

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La Sentenza n. 14890/2025 spiega i confini tra mobbing, cattiva organizzazione e condotta persecutoria sul posto di lavoro

Il concetto di mobbing è da anni al centro del dibattito giuridico e sociale. Molti lavoratori lamentano situazioni di pressione, sovraccarico e stress, che spesso vengono associati, talvolta impropriamente, al mobbing. Con la sentenza n. 14890 del 3 giugno 2025, la Corte di Cassazione ha fissato un principio fondamentale: l’eccesso di carico di lavoro, da solo, non basta a configurare mobbing, se mancano comportamenti persecutori sistematici e intenzionali.

Questa decisione si inserisce in un filone giurisprudenziale che mira a delimitare il campo tra disagio lavorativo e vera e propria condotta vessatoria, offrendo al contempo maggiori certezze a lavoratori e datori di lavoro.

Cosa ha stabilito la Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha sottolineato che il mobbing non è un concetto generico riconducibile a ogni situazione di stress o malessere, ma una condotta precisa, caratterizzata da alcuni elementi:

  • ripetitività e sistematicità degli atti vessatori;

  • intento persecutorio mirato a isolare o danneggiare il lavoratore;

  • conseguenze concrete sul benessere psico-fisico o sulla posizione professionale della vittima.

Il semplice sovraccarico di mansioni, anche se pesante e mal distribuito, rientra più facilmente nella cattiva organizzazione del lavoro o in una gestione inadeguata delle risorse, e può comportare altre responsabilità per il datore, ma non coincide automaticamente con mobbing.

Differenza tra mobbing e stress lavoro correlato

La sentenza mette in rilievo un altro punto chiave: il diritto del lavoro italiano distingue tra mobbing e stress lavoro correlato.

  • Stress lavoro correlato: può derivare da una cattiva gestione organizzativa, da carichi eccessivi o da mancanza di equilibrio tra compiti e risorse. In questi casi, il datore di lavoro resta comunque responsabile ai sensi dell’art. 2087 c.c., che impone la tutela delle condizioni di salute dei dipendenti.

  • Mobbing: si verifica quando esiste una condotta dolosa, ossia volontaria e reiterata, con un disegno persecutorio. Non è sufficiente quindi provare un disagio, ma occorre dimostrare l’esistenza di un comportamento vessatorio mirato.

Implicazioni per i lavoratori

Per i lavoratori questa decisione rappresenta una conferma: non tutti i disagi subiti possono essere qualificati come mobbing. Per intentare una causa di questo tipo, è necessario:

  • raccogliere prove documentali (email, comunicazioni, ordini di servizio);

  • mantenere un diario degli episodi di vessazione con date, luoghi e modalità;

  • presentare referti medici o psicologici che attestino i danni subiti;

  • eventualmente raccogliere testimonianze di colleghi.

In assenza di questi elementi, la richiesta di riconoscimento del mobbing rischia di essere respinta, con conseguenze anche sul piano economico.

Implicazioni per le aziende

Per i datori di lavoro, la sentenza n. 14890/2025 è un monito. Anche se non ogni sovraccarico costituisce mobbing, resta il dovere di garantire un ambiente di lavoro sano e sicuro.

Un’organizzazione carente, che porta a sovraccarichi costanti e insostenibili, può comunque generare responsabilità civile e sanzioni, anche se non etichettata come mobbing. Le aziende devono quindi:

  • monitorare i carichi di lavoro;

  • garantire una distribuzione equilibrata delle mansioni;

  • attuare programmi di prevenzione dello stress;

  • promuovere una cultura aziendale rispettosa dei diritti dei dipendenti.

Un quadro giurisprudenziale in evoluzione

La pronuncia della Cassazione si collega ad altre decisioni recenti che hanno ridefinito i contorni della tutela del lavoratore:

  • Il Tribunale di Reggio Emilia (sentenza n. 337/2025) ha riconosciuto il mobbing come malattia professionale, risarcibile anche in assenza di prove puntuali, se emerge un quadro complessivo di vessazione.

  • Il Tribunale di Trieste ha dichiarato illegittimo un licenziamento, collegandolo a una condotta di mobbing accertata in azienda.

  • La Cassazione, con ordinanza n. 19439/2025, ha invece ricordato che senza prove concrete di condotte vessatorie, il mobbing non può essere riconosciuto.

Questi esempi mostrano come la giurisprudenza sia attenta a distinguere le situazioni, rafforzando da un lato la tutela dei lavoratori vittime di comportamenti persecutori, e dall’altro evitando un uso improprio del termine mobbing.

La sentenza della Cassazione n. 14890/2025 contribuisce a fare chiarezza in un ambito delicato. Il messaggio è duplice:

  • Ai lavoratori: occorre documentare con precisione eventuali condotte persecutorie, distinguendole dallo stress legato a cattiva organizzazione.

  • Alle aziende: anche senza mobbing, un ambiente di lavoro malsano può generare responsabilità gravi.

In definitiva, il mobbing resta una fattispecie giuridica precisa e non un’etichetta generica per ogni situazione di malessere lavorativo. La vera sfida è promuovere luoghi di lavoro in cui organizzazione, rispetto e benessere siano parte integrante della cultura aziendale.

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