Giornale Online Direttore Paolo Centofanti

Diritti e inclusione

Perché gli stalker vorrebbero persino sentirsi “normali” : negazione, distorsione e ricerca di validazione patologica

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Gli stalker vorrebbero “normalizzare” la loro patologia per ribaltare la realtà sulle vittime . Purtroppo una cultura della negazione del disagio mentale apre spiragli per la giustificazione del male

Mobber e stalker condividono lo stesso nucleo patologico: la negazione della realtà dell’altro

Una delle dinamiche più inquietanti nello stalking è questa : chi ti perseguita non vorrebbe solo invadere la tua vita. Vorrebbe anche che tu – e gli altri – consideraste questo comportamento come normale. Non gli basterebbe disturbarti o interferire con la tua libertà. Vorrebbe che tu accettassi la sua narrazione come se fosse naturale. Vorrebbe essere percepito come “più normale dei normali”. Vorrebbe che la realtà si piegasse al suo racconto fantastico.

Chi esercita stalking difficilmente ammetterebbe la natura patologica delle proprie azioni. Anzi, spesso pretenderebbe che il problema fosse tuo: la tua reattività, la tua sensibilità, la tua interpretazione. In altre parole: saresti tu quella / quello “non normale”. Non lui.

Questa non è una semplice tattica. È una dinamica psicologica, anch’essa patologica : una distorsione di realtà attraverso cui l’aggressore vorrebbe auto–assolversi e ribaltare ogni responsabilità sulla vittima e al limite sul contesto sociale.

La “normalizzazione” della violenza come strategia di controllo

Gli stalker vorrebbero trasformare l’eccezione, la patologia e i reati in norma. Vorrebbero che l’invasione della vita altrui fosse vista come “attenzione”. Che la persecuzione apparisse come “interesse” legittimo. Vorrebbero che la violenza psicologica venisse interpretata come “preoccupazione per la vittima”. E arrivare a pretendere di farlo per il bene delle loro vittime.

L’obiettivo non è solo entrare illecitamente nelle vite altrui: è cercare di ridefinire la nostra percezione di ciò che è normale e ciò che non lo è. Lo stalking è sempre una battaglia sulla realtà. E cercarne la normalizzazione ne è l’arma principale.

Dipendenze e abuso di sostanze: un acceleratore del collasso cognitivo e relazionale

Le dipendenze da alcol e droghe potrebbero aggravare enormemente queste dinamiche, perché indeboliscono ulteriormente la capacità critica, la percezione della realtà e il controllo degli impulsi. In presenza di comportamenti persecutori, l’uso di sostanze potrebbe diventare un “lubrificante” delle distorsioni cognitive: l’aggressore non solo negherebbe la propria patologia, ma perderebbe anche le ultime barriere interne di autocontrollo e auto–valutazione. Alcol e stupefacenti potrebbero alimentare il meccanismo paranoide, la percezione di avere “diritti” sull’altro, e persino la sensazione di essere ingiustamente vittimizzati. Più crolla il giudizio, più l’idea di “essere nel giusto” potrebbe diventare ossessiva. E più la persona che subisce stalking potrebbe trovarsi davanti a condotte ancora più invasive, caotiche e imprevedibili.

Negazione radicale : se non lo ammetto, non esiste

Lo stalker potrebbe forse essere anche lucido e funzionale in altri ambiti della vita. Potrebbe. Ma sul proprio comportamento persecutorio è rigidissimo: non ammetterà mai che sia patologico e che sia un problema. Perché se lo ammettesse, crollerebbero il personaggio che si è faticosamente costruito, e la difficoltosa accettazione di sè stesso. Ecco perché gli stalker hanno così tanto bisogno di “legittimazione”. O di una parvenza della stessa. Vorrebbero che gli altri confermassero che il modo in cui credono di essere è reale. Vorrebbero complici, sponde, specchi sociali. Se non persino fan e sostenitori.

Perché non cercano la verità. Cercano impossibili conferme.

Interpretazioni ideologiche della riforma psichiatrica e mito dell’assenza di patologia

Un altro nodo da comprendere è quello culturale. In Italia dagli anni ’80 in poi si è diffusa un’interpretazione popolare e semplificata dello spirito della riforma psichiatrica (legge 180/1978, la cosiddetta “legge Basaglia”): non tanto la riforma reale – che fu una riforma sanitaria e civile importantissima, anche se in parte superata – ma una ideologia derivata da essa. Secondo questa lettura “popolare” estremizzata, nessuna condotta sarebbe patologica in sé. Tutto sarebbe riducibile a contesto, vissuto, storia, stigma. Conseguenza: ogni atto verrebbe interpretato come espressione di libertà personale. In questa semplificazione si è insinuata una idea pericolosa: la patologia non esiste, esiste solo la società che giudica.

Quando la negazione del disagio mentale diventa complicità verso chi manipola la realtà

È in questo tipo di clima culturale – non nella riforma psichiatrica in sé – che certe forme di distorsione possono trovare terreno fertile: chi mette in atto comportamenti patologici si sente autorizzato a negare ogni dimensione disfunzionale delle proprie condotte. E prova persino a rivendicare come “libertà personale” ciò che è, invece, una forma di violenza psicologica diretta e invasiva, e un reato.

Questo non dipende da Basaglia né dal testo della Legge 180 – che comunque oggi è da rivedere – ma da come alcuni ambienti – sociali, politici, mediatici – hanno usato una retorica anti diagnostica estrema. Una retorica che tende a negare ogni differenza tra salute e patologia. E che, nei fatti, può favorire la giustificazione sociale di condotte che meritano invece solo attenzione clinica, intervento terapeutico, tutela giuridica delle vittime, sanzioni penali e civili.

Il meccanismo dei mobber : stessa matrice di negazione, stessa fame di falsa legittimazione

Molti mobber, nelle dinamiche lavorative e sociali, attivano uno schema mentale molto simile: pretendono che la loro aggressività sia “normale”, sostenibile, inevitabile. E usano la negazione sistematica della realtà dell’altro come arma di dominio. Anche in questi casi il nocciolo sarebbe lo stesso: la patologia narcisistica o paranoide si maschererebbe da normalità. Il mobber – così come lo stalker – non vuolo solo poter prevaricare e agire la propria violenza, ma vorrebbe soprattutto che gli altri la percepissero come “corretta”, “giustificata”, “meritata”.

Non punirebbe senza scopo: costruirebbe narrazioni che distorcono la vittima, la degradano, la ridicolizzano e la disumanizzano, così da apparire “ragionevole” agli occhi di chi osserva. Anche qui, il conflitto non riguarda i fatti. Il conflitto riguarda la definizione del reale. E la chiave di tutto rimane la stessa: l’ossessione di trasformare la patologia in norma e di ottenere legittimazione sociale per comportamenti distruttivi, illegittimi, illegali.

La patologia che vorrebbe diventare norma

Un punto cruciale è questo: chi mette in atto stalking – o mobbing – non nega solo la propria patologia. Vorrebbe che il suo modo distorto e patologico di percepire diventasse lo standard per tutti. Vorrebbe che la sua distorsione diventasse la norma sociale. È lì che l’inganno diventa pericoloso: quando la patologia chiede di essere riconosciuta come “normalità”.

E qui tocchiamo anche un piano antropologico: l’essere umano può arrivare a costruire sistemi di auto–giustificazione così forti da provare a imporli agli altri. È la logica del male che vorrebbe legittimarsi come “ragione”.

Conclusione

Non è un confronto tra opinioni diverse. È uno scontro tra la realtà delle vittime e la distorsione della realtà tentata dagli stalker che vorebbero persino “normalizzarsi”. Gli stalker vorrebbero che le persone negassero la loro percezione reale, e seguissero la loro percezione, patologica. Vorrebbero che la patologia fosse accettata e normalizzata. E vorrebbero che violenza e prevaricazioni diventassero invisibili, “normali”.

Bisogna riconoscerlo: lo stalking è la negazione dell’altro per dare una parvenza di senso a sè stessi, e la pretesa di riscrivere la realtà.

La prima difesa, oltre a quella legale, è rimanere ancorati alla propria percezione. E non cedere alla narrativa che vorrebbe normalizzare l’anormale.

Immagine: elaborazione artistica con IA.

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